Oggi tocca a me raccogliere il testimone per proseguire il nostro viaggio all’interno del romanzo di Nicola Valentini, “Ricorda il tuo nome”, con la mia tappa intitolata “Sopravvivere a Buchenwald”.
Acquistalo subito: Ricorda il tuo nome
Editore: Leone Editore
Collana: Mistéria
Genere: Thriller
Prezzo: € 13,90
Pagine: 332
Una fotografia. Un istante immortalato per sempre su pellicola. Ogni singola foto racconta qualcosa, è in grado di fermare il tempo e invogliare la memoria a ricordare. Che sia su pellicola o digitale la fotografia è sempre stata una forma di espressione silente che non ha bisogno di parole, è l’immagine a raccontare una storia, tramandare qualcosa di importante. Alcune volte è servita a documentare e testimoniare con chiarezza avvenimenti del passato, diventando per noi un ponte tra ciò che succede oggi e ciò che è già accaduto, permettendoci di vedere più da vicino ciò che il passato ci nasconde, mettendolo in piena vista per avere un assaggio di quelle atrocità di cui è stato testimone.
Nicola Valentini nel suo esordio “Ricorda il tuo nome” ci mostra in maniera concreta l’importanza del giorno della memoria, che non significa restare in silenzio per qualche minuto o postare una foto per far finta di interessarsi a qualcosa successa più di settanta anni fa, ma riflettere attentamente sugli errori commessi in passato per non ripeterli ancora.
In questo senso è la sua opera stessa una fotografia, attraverso i suoi personaggi testimonia quello che accadeva tra le mura di un campo di concentramento come quello di Buchenwald, dove a Saul Ben Younes spetta il compito di narrare i tragici eventi che lo hanno portato fino alla clinica di San Marco, a Norimberga, in un doloroso percorso tracciato da cocchi di vetro e ferite dell’animo che non possono essere rimarginate.
Rivolgendosi a Zakhor, un altro uomo che ha subito la sua medesima sorte, ha vissuto in prima persona la segregazione dei campi di concentramento, Saul racconta la sua storia, ci catapulta tra le pieghe della storia mescolando i suoi racconti a riflessioni intime, immagini che vanno e vengono, mostrano l’orrore che vorrebbe eliminare dalla memoria, ma che puntualmente si ripresenta come un mostro assetato di ricordi e dolore, che lo tortura anche da sveglio.
I racconti di Saul sono dunque la testimonianza di un sopravvissuto, un numero, costretto ad aiutare il comandante del bunker a creare dossier sui prigionieri tenuti nel campo, servendosi delle sue doti da fotografo, le stesse che lo hanno relegato a vedere ancora più da vicino altri tipi di orrori, immortalarli e sperare che uno scatto possa essere sufficiente a fargli avere un altro giorno di vita, un altro, un altro ancora e così via.
La fotografia gli ha permesso di sopravvivere a Buchenwald racimolando poco a poco informazioni e immagini sui carnefici che gestivano il campo, costringendolo sempre a camminare sul filo del rasoio. Ma se da una parte era pericoloso, dall’altra era un’occasione unica per poter documentare la storia, un’onore pesante e un dovere inevitabile. Con le sue foto aveva prove di tutte le atrocità commesse, ma soprattutto aveva impresso su pellicola i volti di coloro che ne erano i mandanti.
Saul, intanto, vive dentro di sè un dilemma che dilania l’animo di qualsiasi prigioniero, dove c’è la possibilità di ribellarsi e anziché scattare fotografie di vittime e carnefici si può impugnare un’arma e fare qualcosa di concreto non sa quale scelta fare. Anche quando l’occasione gli si presenta, un’arma cade a terra e sembra essere tanto facile da impugnare per fare la cosa giusta la sua mano si ferma, probabilmente un po’ per paura delle conseguenze, un po’ perchè morire adesso salvando un prigioniero voleva dire gettare al vento tutte le prove che aveva raccolto durante la sua permanenza. Così questa sua discesa verso l’inferno interiore lo lascia inerme, incapace di sollevare il peso di quell’arma, incapace persino di pensare di poter premere il grilletto, da una parte arso dal desiderio di vendetta dall’altro dissanguato dall’imminente fine che lo aspetta.
Sopravvivere a Buchenwald è un album fotografico fatto di brutti ricordi, un simulacro della perfidia umana che mostra i volti di coloro che si sono fatti carnefici.
«C’è una parola in ebraico, zakhor, che significa “ricorda”. Non è un invito ma un imperativo, perchè nella nostra tradizione è fondamentale ricordare. Senza i ricordi saremmo alberi senza radici.»
disclaimer: si ringrazia l’ufficio stampa di Leone Editore per la copia omaggio.